La Facoltà Teologica di Sicilia “San Giovanni Evangelista” Augura una Santa Pasqua 2015
La scelta della nostra Facoltà, nell’occasione dello scambio degli auguri pasquali di quest’anno 2015, di celebrare i Vespri della S. Croce, musicati dal nostro conterraneo, Mons. Giuseppe Liberto, e così bene eseguiti dal Coro Polifonico del Balzo e dal Coro della Facoltà, in questo luogo, da lei significativamente richiamato nella sua omelia, non è casuale. La Croce infatti è lo scanno, la vera cattedra, da cui noi ascoltiamo l’autorevole parola con cui Cristo ci ammaestra. Essa avvalora di senso, quello della sua sofferenza e della sua morte, tutte le parole da lui apprese, e rappresenta, secondo la insostituibile immagine che ci hanno consegnato i Padri, la stadera, la bilancia, su cui si soppesano, nel confronto con l’esattezza del pensiero stesso di Dio, i giudizi, le determinazioni e le ponderazioni che l’esercizio della teologia tenta di esprimere, sempre per difetto, allorché dipana il pensiero della fede dispiegandolo, a sua volta, in parole umane. Parole pensate, dettate, insegnate, ripetute, scritte, pubblicate.
Non può dunque meglio esprimersi un augurio per noi in questa Pasqua, che non sia quello di aderire sempre più al segno di salvezza da cui viene la vita, che è stata a lui tolta quando è stato elevato da terra; di considerare davvero la croce, misura del mondo, sospendendo così i nostri contrastanti parametri di giudizio; di rimanere alla sua ombra nell’atto di meditare la parola che, in ultimo, da essa è stata dettata e che raccoglie col testamento del maestro morente, la sintesi del suo insegnamento, con cui è crocifisso l’uomo vecchio e da cui emerge la sapienza dell’uomo spirituale.
Quel testamento è compendiato da Luca in una semplice ultima parola detta dalla croce: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (23,34). Questa parola, volendo per analogia usare figure che ci provengono dall’arte cinematografica, è il sonoro della croce ma è anche la negativa della vita che la croce svilupperà nella Risurrezione. Non un lamento ostile, ma una dolce e fiduciosa preghiera di perdono. La croce rivela il peccato dell’uomo, realtà smisurata e inafferrabile, manifestata nella sua effettiva sconfinata estensione, l’estensione e la misura dell’ignoranza: «non sanno quello che fanno».
Con l’annunzio del perdono, Gesù compie la giustizia, senza farsi giustizia. Realizza la giustizia con la sapienza della croce. Con il testamento della croce, Gesù annunzia la giustizia come misericordia, trasforma l’esperienza della sofferenza da esperienza d’introversione e di solitudine in passione d’amore estroverso, amore consapevole, amore salvifico. Se io fossi solo giusto con un mio nemico, il debito sarebbe saldato, ma se lo perdono, creo un obbligo che non può essere mai estinto. Ecco il vero valore della misericordia: è una ricchezza data al misero, che lo rende ricco per un futuro che nulla può ipotecare o estinguere, il futuro di Dio.
La scelta di Gesù morente è rivoluzionaria. Dalla croce rivela l’origine di ogni sofferenza e ingiustizia, e sebbene non chiami per nome il peccato, ad esso riconduce ogni colpevolezza allorché invoca dal Padre ciò che lui solo può dare, cioè il perdono, restituendogli la prerogativa di essere e di rimanere Dio.
Con la parola della croce, non proclama la sua innocenza, non condanna i suoi giudici e carnefici, ma ne invoca il perdono. Si tratta di una giustizia che paradossalmente ritiene un forte valore equitativo, il quale consiste nella reciproca gratuità; la gratuità irrazionale e senza senso del peccato è sovrastata dalla liberalità di un amore a senso unico, che non soppesa il costo di colui che perdona, ma che pregiudica il peccato per sempre, rendendolo impotente dinanzi alla potenza del perdono. Si dispiega così l’immenso mistero della misericordia che perdona i tanti peccati a chi ha tanto amato (cf. Lc 7,47).
La rivoluzione attuata da Gesù dalla croce con la proclamazione del perdono consiste nell’aver fatto spazio all’amore in un mondo finora regolato dalla legge (cf. Rom 3,20). L’innocente oggetto di un giudizio ingiusto non si appella alla giustizia per liberarsi, ma invoca l’amore per liberare dalla stessa giustizia chi ne dispone senza la consapevolezza dell’amore. Quello che nel segno di Cana aveva mimato trasformando l’acqua dell’osservanza rituale nel vino dell’esultanza (cf. Gv 2), ora compie nei fatti trasformando la giustizia iniqua in amore ingiusto, nel senso di amore immeritato. Nel famoso romanzo di V. Hugo, I miserabili (1862), Javert, integerrimo ispettore di polizia, nell’incapacità di conciliare la propria coscienza di uomo – costretta a sentirsi grata nei confronti di un criminale, Jean Valejan, per avergli salvato la vita – con quella di tutore della legge, finisce con lo scegliere il suicidio gettandosi nella Senna, piuttosto che continuare a vivere in un mondo in cui vi fosse posto per la legge e la misericordia insieme. Amo molto quell’iperbole costruita dal gesuita Martin J. Scott, noto apologeta anglofono, quando scrive: «A meno che non siamo disposti a credere che il Creatore e Signore del mondo sia ingiusto, saremmo costretti a credere in una vita futura nella quale egli renderà a ciascuno secondo le proprie azioni» (Prove There’s a Soul That Will Last Forever, 1941).
Dopo che dalla croce è venuta al mondo la sapienza, il nostro mondo non è stato più lo stesso: il nuovo Adamo ha riconosciuto a Dio il potere dell’amore, liberandosi così dalla legge che era provenuta dal peccato. Innocenza e ignoranza si incontrano nella croce. L’innocenza di Cristo, la sua libertà dal peccato, comprende il peccatore e lo salva con la forza consapevole dell’amore: lo rende innocente nel dargli la sapienza, la sapienza della croce, che è libertà crocifissa. L’ignoranza, intesa come gonfia scienza dell’uomo senza l’amore, ovvero come ottusità derivata all’uomo dall’ebbrezza del peccato, fa stagnare l’uomo nello schema di una giustizia regolata dalle ragioni del peccato e lo induce ad agire incomprensibilmente. L’affermazione «non sanno quello che fanno» diventa così la causale della salvezza. L’ignoranza salva l’uomo nel senso che lascia a Dio lo spazio per ricominciare con l’uomo daccapo (cf. Rom 5,20) donandogli accanto all’intelligenza anche la sapienza dello Spirito. A partire da questo, Paolo parlerà della croce come sapienza di Dio, contro la stoltezza degli uomini o la loro saccenteria religiosa (cf. 1Cor 1,23).
Col perdono l’uomo è ricondotto alla sua originaria dignità; viene svestito della maschera di autosufficienza che aveva indossato quando aveva preteso di farsi come Dio, e rinasce alla bellezza del suo stato creaturale, non più da ignaro ma come innocente, vicino cioè alla santità, specchio di una bellezza che basterebbe a confermare in lui la gioia di sapersi amato senza condizioni, se non quella di riflettere sul suo volto quello del Creatore.
Nell’intimità più recondita, e pure la più autentica, la fede cristiana ha la sua radice nel perdono. Quanto sterili sono quei pulpiti o quelle cattedre teologiche, diversi dalla croce, dai quali viene insultato, deriso e condannato il peccatore, negandogli il balsamo della speranza, e lasciando che il peccato, senza l’antidoto del perdono, continui la propria irrazionale silenziosa espansione! Per tre anni, lungo il corso della sua vita pubblica Gesù aveva esortato all’amore dei nemici: «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano» (Lc 6,27). Ora che a farne le spese era lui stesso, i benpensanti si attendevano di vedere finalmente smentito quel vangelo, di vedere sollevato il velo di ipocrisia che sola avrebbe potuto motivare quella dottrina tanto radicale e scomoda; dalla croce invece spira il soffio di un amore che rigenera con la forza del perdono.
Finché i nostri pulpiti, i nostri confessionali, le nostre cattedre teologiche non assomiglieranno alla croce, ma saranno simili a scanni di tribunali, l’eco della parola ultima dalla croce non risuonerà con tutta la sua forza liberatrice e la nostra fede, che è sorta dalla Pasqua, sarà sempre una pallida imitazione di un ritualismo vuoto e vanesio, gonfio d’inutili sacrifici resi a un Dio rabbioso da placare, già condannata dai profeti d’Israele. Gesù dal pulpito della croce annunzia che il suo Dio, tutto santo, è anche tutto amore: il vero sacrificio che gli rende è quello della volontà, con cui rimette nelle mani del Padre il giudizio circa la sua stessa morte, liberando così i suoi esecutori dalla colpa di averla causata materialmente e rendendo il suo sacrificio volontario, un atto di oblazione perfetta. Quella di Gesù sulla croce così è non una passione di dolore ma un’azione di perdono. Il suo perdono è amore a senso unico. Si chiama misericordia, compendio e misura della vita cristiana a cui ci invita Francesco in questa attesa vigile dell’anno giubilare da lui indetto.
Stretti attorno alla croce ci auguriamo in questa Pasqua, in un tempo della nostra storia in cui la forza della tronfia scienza e potenza dell’uomo sembra schiacciare ancora una volta la speranza e la fiducia del povero, che la sua sapienza conduca alla misericordia. Possa la nostra comunità accademica, sotto la guida dei suoi pastori e maestri, imparare sempre più la sapienza della croce e mai abbandonarne la scena.
Buona Pasqua!
Il Preside
prof. Rosario La Delfa